Naufragio con apostolo

Predicazione su Atti 27, 1 - 7, 13 - 44 e Atti 28, 1 - 2

Predicazione tenuta dal prof. Emidio Campi presso la Zwinglikirche, domenica 26 gennaio 2020

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Si è conclusa ieri la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, una iniziativa mondiale a cui aderiscono tutte le chiese membro del Consiglio ecumenico e la Chiesa cattolica. Il materiale per l’edizione di quest’anno è stato preparato dalle chiese cristiane di Malta, che hanno scelto come testo biblico di riferimento i capitoli 27 e 28 del libro degli Atti, in cui si narra il naufragio dell'apostolo Paolo sulle coste dell’isola.
Paolo, Luca e un altro cristiano di nome Aristarco sono su una nave diretta a Roma con a bordo 276 persone divise in tre gruppi distinti: prigionieri, soldati e marinai. Nel viaggio si scatena una violenta tempesta e l’imbarcazione diviene ingovernabile. I prigionieri appartengono a diverse etnie, lingue e religioni e sono destinati ai mercati romani di schiavi, oppure sono detenuti politici, come Paolo, trasferito dalla prigione di Cesarea a Roma per essere giudicato da un tribunale imperiale. I soldati incaricati della custodia dei prigionieri temendo che essi possano fuggire meditano di ucciderli. I marinai cercano con uno stratagemma di mettersi in salvo abbandonando gli altri a se stessi. La strage viene evitata grazie all’intervento di Paolo e così – dice il nostro testo – «tutti giunsero salvi a terra» (Atti 27, 44). Qui i naufraghi scoprono di essere giunti su una isola chiamata Malta. E il nostro testo aggiunge che i suoi abitanti «li trattarono con gentilezza», o, come traduce la nostra Riveduta, «usarono verso di noi bontà non comune» (Atti 28, 1-2).

È doveroso, innanzitutto, un ringraziamento alle sorelle e fratelli maltesi per aver scelto questo testo. A loro va riconosciuto il merito di avere ricordato alle chiese dell’emisfero nord che nella Bibbia c’è scritto che non si lascia morire la gente in mare, ma la si accoglie con «bontà non comune». Basterebbe già questo messaggio a indicare, da solo, la straordinaria attualità del nostro testo.
La composita comunità sulla nave sbattuta dalle onde invita però a una riflessione più generale. Quei tre credenti in Cristo in mezzo a duecentosettanta tre uomini e donne di altre religioni o di nessuna religione sono l’immagine di una chiesa che sa travalicare i perimetri ecclesiastici per affrontare, con e nella società civile, le sfide umane che si presentano.

Lasciamo da parte la situazione globale del cristianesimo che, almeno statisticamente, con i suoi 2, 2 miliardi di fedeli è pur sempre la religione più diffusa al mondo, essendo praticata dal 31% della popolazione del nostro pianeta. Soffermiamoci sulle statistiche della composizione religiosa della città di Zurigo riferite al 2019. Un terzo (34%) della popolazione è senza confessione religiosa (atei, irreligiosi, agnostici). La religione cattolica romana costituisce il 28% della popolazione, seguono gli evangelici riformati con il 22%. I cristiani ortodossi sono il 4% e il 3% appartiene ad «altre comunità cristiane». Ciò significa che le varie confessioni cristiane tutte insieme raggiungono il 57 %, ma che ciascuna di esse, presa singolarmente, è minoritaria rispetto a coloro che dichiarano di essere «senza confessione religiosa». La città annovera inoltre credenti di altre religioni: i musulmani costituiscono il gruppo più numeroso (6%). Gli ebrei rappresentano l’1%, mentre gli indù e i buddisti, con circa 4.000 persone per gruppo sono circa lo 0,8%. Anche gli aderenti a queste religioni quindi sono minoritari rispetto a coloro che si dichiarano «senza confessione religiosa». È interessante notare che nel 1970 la percentuale della popolazione «senza confessione religiosa» era del 2%, nel 2000 del 17%, nel 2010 del 25%, oggi – ripeto – del 34%. Queste cifre parlano da sé: non solo le chiese cristiane sono in costante decrescita, ma stanno diventando una minoranza in una società di individui che professano una fede diversa o nessuna religione, proprio come il piccolo gruppo composto da Paolo, Luca e Aristarco in mezzo agli altri 273 passeggeri.
Un altro motivo rende ancor più calzante e attuale l’immagine della nave piena di gente d’ogni genere che, trascinata dalla tempesta, si infrange sulle coste di Malta. Sono ormai anni che sentiamo che l’umanità rischia di fare naufragio. Tempeste tremende, eccezionali si stanno addensando intorno a noi: dai rumori di guerra sempre più forti, al problema alimentare, dalla scarsità delle risorse energetiche, all’inquinamento dell’ambiente. Certo, sulla questione ambientale le opinioni sono diverse. Greta Thunberg, la 16enne studentessa svedese divenuta la rappresentante più conosciuta del nuovo movimento ambientalista, ha lanciato l'ennesimo allarme al Foro economico mondiale di Davos di quest’anno: «La nostra casa è in fiamme e la vostra inazione le alimenta». Ma non era l’unica. I concreti rischi che stiamo correndo tutti a causa dei cambiamenti climatici e che possono essere mitigati solo con iniziative coordinate a livello globale sono stati affrontati in termini più pacati ma fermi sia dalla presidente della Confederazione, Simonetta Sommaruga, sia dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, sia dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Nella stessa sede, viceversa, il presidente americano Donald Trump, si è detto ottimista per il futuro del nostro pianeta e ha invitato a rigettare gli scenari apocalittici proposti dai «profeti di sventura», soprattutto per quanto riguarda il clima. Le soluzioni, egli ha affermato, verranno dal libero mercato e dalle nuove tecnologie.
Ognuno è libero di ignorare le tempeste violente che si stanno addensando sul nostro pianeta e illudersi di vivere come se fossimo a bordo di una splendida nave da crociera, oppure di pensare che la scienza, il progresso tecnologico fermeranno il disastro prodotto dall’attuale modello di sviluppo. Ma se leggiamo bene la realtà intorno a noi, non possiamo fare a meno di interrogarci sull’atteggiamento da assumere. Cosa possiamo dire e fare come credenti in Gesù Cristo? Cosa ha detto e fatto Paolo?

Dal testo apprendiamo (Atti 27, 9 – 12) che non appena la navigazione comincia a diventare pericolosa Paolo in un’assemblea, dà il suo parere. Basandosi sull’esperienza comune che portava le navi a svernare in qualche posto, consiglia di non muoversi da Creta, pena gravi danni alle cose, alla nave e alle persone. Ma il centurione preferisce dare ascolto agli esperti che decidono di proseguire il viaggio.
Ecco qui una prima indicazione. Paolo non rimira imperturbabile ciò che sta accadendo, non si defila, né tantomeno si ritira in un cantuccio per pregare. Scruta con la massima attenzione quanto sta accadendo, discute, contraddice le scelte fatte dai marinai, offre la sua opinione al centurione romano. La fede nel Cristo crocifisso e risorto scarta le soluzioni ascetico-contemplative. Non si guarda il naufragio dell’umanità dalla sponda della chiesa, ma si lotta per evitarlo. Troppo spesso si considera la fede solo sotto il profilo privato, ossia come una relazione fra se stesso e Dio. Essa è certamente questo, ma non è solo questo. Essere cristiani non significa solo considerarsi tali. Per esserlo concretamente bisogna partecipare al travaglio comune, esporsi, annunciando l’evangelo con le parole, con la propria stessa vita.
Seconda indicazione. Quando giunge la tempesta – e pare proprio di vederla davanti agli occhi questa nave in balia delle onde, tanto vivida è la descrizione – mentre l’angoscia della morte prende gli animi, Paolo pronuncia parole di speranza, di grazia, di vita e di salvezza:
«Uomini, bisognava darmi ascolto e non partire da Creta, per evitare questo pericolo e questa perdita. Ora però vi esorto a stare di buon animo, perché non vi sarà perdita della vita per nessuno di voi ma solo della nave. Poiché un angelo del Dio al quale appartengo, e che io servo, mi è apparso questa notte, dicendo: "Paolo, non temere; bisogna che tu compaia davanti a Cesare, ed ecco, Dio ti ha dato tutti quelli che navigano con te". Perciò, uomini, state di buon animo, perché ho fede in Dio che avverrà come mi è stato detto. Dovremo però essere gettati sopra un'isola». (Atti, 27,21-26)

Non possiamo non rimanere colpiti da queste parole: sull’imperversare della tempesta, sulla disperazione che regna negli animi, torreggia la figura dell’ apostolo che, con la sua fede in Dio riesce a farsi ascoltare e a trasmettere a quegli uomini stremati quella fiducia nella provvidenza divina che egli ha abbondantemente sperimentato nella sua vita.
Ma mentre Paolo annuncia l’approdo in una terra che ancora non si vede, avviene quello che conosciamo così bene dalla vita quotidiana: la ricerca del proprio «particulare», del proprio vantaggio, a scapito del bene comune. Infatti, i marinai, essendo più abili degli altri passeggeri, si impossessano furtivamente della scialuppa di salvataggio e tentano di fuggire abbandonando gli altri alla loro sorte. In questo momento drammatico, Paolo interviene una seconda volta. Informa il centurione romano della sciagurata iniziativa dei marinai e gli chiede di far tagliare le funi della scialuppa che cade nel mare e scompare. Dice Paolo: «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potete scampare» (Atti 27,31).

Cioè, se non si resta tutti insieme, apportando ognuno il proprio contributo, non c’è scampo per nessuno. L’apostolo indica la via della solidarietà, una solidarietà che per lui non si fonda su vaghi principi umanitari, ma in Cristo, il cui corpo è stato dato per «molti», per «tutti».
E infine Paolo compie un ultimo gesto simbolico. Esorta tutti a prendere cibo dicendo:
«Oggi sono quattordici giorni che state aspettando, sempre digiuni, senza prendere nulla. Perciò, vi esorto a prendere cibo, perché questo contribuirà alla vostra salvezza; e neppure un capello del vostro capo perirà». Detto questo, prese del pane e rese grazie a Dio in presenza di tutti; poi lo spezzò e cominciò a mangiare. E tutti, incoraggiati, presero anch'essi del cibo. Sulla nave eravamo duecentosettantasei persone in tutto» (Atti 27, 33-37).
In quel cibo mangiato sul ponte della nave sbattuta dalle onde, è chiarissima, l’allusione alla S. Cena. Sono le stesse parole che Gesù ha usato nell’ultima cena con i suoi discepoli. È l’annuncio della vita donata da Cristo all’umanità, la rappresentazione della speranza della vittoria di Cristo sulla morte, l’affermazione della signoria di Cristo sul creato intero. Quel gesto - il «rendere grazie» e lo «spezzare il pane» - che per le 273 persone imbarcate sulla nave era probabilmente insignificante, diviene essenziale. Rifocillati e rianimati i naufraghi, sono stati resi certi della salvezza prossima per tutti, al punto che possono gettare a mare le scorte dei viveri per alleggerire la nave. Con quel pane spezzato con ringraziamento, con quel pane che dà forza al corpo e allo spirito, cadono le barriere tra credenti e non credenti e sorge la comunione tra gli uni e gli altri e con il Signore.
Ma la promessa di Dio, attraverso le parole del suo apostolo Paolo, non si ferma qui. La terra di salvezza su cui approdano i naufraghi sfiniti ha un nome: Malta. E il testo aggiunge: «Gli indigeni maltesi usarono verso di noi una bontà non comune» (Atti 28i, 2).

Sorelle e fratelli, anche noi, piccolo gruppo di credenti, partecipiamo al dramma del nostro tempo, con la fede viva che il Signore non ha creato l’umanità per poi abbandonarla a se stessa, ma si china invece su di noi dall’alba al tramonto e ci fa dono di mille benefici che non sappiamo più vedere, sebbene concessi ogni giorno. Questo è il compito semplice, tremendo e meraviglioso al quale la fede ci invita: annunziare nelle tempeste del tempo presente ai nostri contemporanei la speranza di Dio. 

Amen

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